giovedì 9 aprile 2009

26.4.'09 VERONA: Conferenza di S.E. Mons. Giampaolo Crepaldi Segretario del Pontificio Consiglio GIUSTIZIA e PACE

S.E. Mons. Giampaolo Crepaldi Segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace

e Presidente dell’Osservatorio Internazionale Card. Van Thuân sulla Dottrina sociale della Chiesa

CRISI ECONOMICA E MERCATO.

LE INDICAZIONI DELLA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA

Verona, Gruppo Cooperativo Paritetico Cercate – 16 aprile 2009

Non c’è dubbio: questa crisi finanziaria ed economica ci interpella in profondità e mentre ci fa sentire più vulnerabili anche sollecita la nostra responsabilità. Tutti sentiamo che è molto più che una crisi economica, e che richiede un cambiamento di rotta, ma i cambiamenti di rotta comportano sempre ben più delle semplici politiche economiche. Anche il Santo padre si è lasciato interpellare dalla crisi economica, su cui è intervenuto spesso. Da ultimo lo ha fatto nel colloquio con i sacerdoti romani il giorno del primo giovedì di quaresima, quando ha pronunciato una frase che con piacere ho ritrovato stampata sull’invito per questo ciclo di conferenze che voi avete organizzato: «Noi dobbiamo denunciare questa idolatria che sta contro il vero Dio e la falsificazione di Dio con un altro dio, “mammona”. Dobbiamo farlo con coraggio ma anche con concretezza. Perché i grandi moralismi non aiutano se non sono sostanziati con conoscenze della realtà». Proprio per questo egli si è dato un ulteriore tempo per esaminare la crisi economica prima di licenziare la sua nuova enciclica sociale, per non fare del moralismo non sostanziato con conoscenze della realtà. La Dottrina sociale della Chiesa non è un moralismo, non è una serie di desideri etici o di edificanti aspettative proiettati sulla realtà sociale o economica. Essa è l’incontro della luce della fede cristiana con l’operato della ragione, come dice Benedetto XVI nella Deus caritas est. La fede accetta quanto la ragione dice nel proprio campo, ma anche la purifica e la rende capace di rispondere meglio ai propri impegni. Così è anche per questa crisi economica: le scienze economiche o politiche fanno la loro parte, che è però insufficiente, come ben prova il fatto che non sono riuscite a prevedere nulla della attuale crisi. Centinaia di centri di ricerca deputati esclusivamente allo studio dei trend finanziari ed economici non sono stati in grado di darci uno straccio di terapia preventiva, sicché il mondo intero ora si trova a dover rincorrere una crisi che ha colto tutti di sorpresa. Evidentemente, c’è bisogno anche di un’altra luce, che nuovamente ci illumini sulla natura dell’economia e a cosa essa serva. Questo però a sua volta richiede che ad essere illuminata sia prima di tutto la natura della persona e il senso etico e religioso – e non solo tecnico - del suo agire. Benedetto XVI, in un altro dei suoi interventi sulla crisi che ha fatto molto scalpore, - stava inaugurando il Sinodo sulla Parola di Dio - ha detto che solo la Parola di Dio rimane in eterno, mentre tutte le altre ricchezze passano, come dimostra la crisi finanziaria in atto. Non si era trattato di retorica religiosa. La crisi dimostra che l’economia non sa reggersi da sola, senza essere sostenuta da un sistema valoriale di riferimento che la trascenda, ossia che non sia a sua volta solo economico. E quando questo viene meno, l’economia non è in grado, da sola, di ricostruirlo. L’economia non si salva da sé, come hanno pensato per molto tempo i sostenitori della “mano invisibile”, però non può essere nemmeno salvata solo dalla politica, come sostengono oggi i fautori di un nuovo interventismo statale. Ma su ciò avremo modo di tornare.

La crisi ci interpella. E’ da vedersi quindi come un’occasione, però intendendoci bene su questo termine. Molti, specialmente i sostenitori della “decrescita” e del “dopo sviluppo”, considerano addirittura benvenuta questa crisi economica, in quanto ci obbligherebbe a rivedere molti nostri comportamenti eccessivamente improntati alla crescita, ossia alla produzione e al consumo, e non alla sobrietà e alla salvaguardia delle risorse. Poiché essi condannano la crescita in quanto tale, vedono nella crisi la sconfitta del modello della crescita e l’occasione per invertire la rotta, verso la decrescita. Non è in questo senso che io considero la crisi un’ “occasione”. Non nego che la crisi apra anche interessanti spazi per razionalizzare i nostri comportamenti economici, come in seguito dirò, ma non mi sento di plaudire ad una crisi che mette in ginocchio lavoratori e famiglie e impedisce dei seri aiuti ai paesi poveri. Una specie di cinismo ideologico può farci pensare che è meglio che il sistema crolli, perché sarebbe esso l’origine vera di tutti i mali. La Dottrina sociale della Chiesa sa che esistono le “strutture di peccato” e dinamiche sociali che talvolta sembrano imporsi alle persone, ma non crede che esista il “sistema”, impersonale e meccanico, in quanto la storia rimane nelle mani dell’uomo. Nessun pessimismo antropologico, quindi, ma un realismo della speranza ci deve guidare.

Tuttavia anche io ritengo che la crisi sia un’occasione, non per puntare alla decrescita, ma per riappropriarci responsabilmente della crescita. La crisi ci obbliga a pensare e a riprogettare, a darci nuove regole e a trovare nuove forme di impegno, a puntare sulle esperienze positive e a rigettare quelle negative. La crisi è occasione di discernimento e di nuova progettualità. In questa chiave, fiduciosa piuttosto che rassegnata, penso che essa veramente possa essere un’occasione, se solo noi vogliamo che lo sia. E in questa occasione un ruolo di fondamentale importanza ha da svolgere la Dottrina sociale della Chiesa.

Una chiave di lettura molto illuminante mi viene fornita dal principio di sussidiarietà. A ben vedere la crisi finanziaria è nata proprio dalla negazione di questo principio. La finanza dovrebbe essere sussidiaria all’economia reale e non viceversa. Le banche e le borse dovrebbero essere sussidiarie al sistema produttivo e non viceversa. I mutui casa dovrebbero essere sussidiari alle famiglie e non viceversa. Le regole e i controlli dovrebbe essere sussidiari a garantire tutto questo e non funzionali a tutto questo. Come si vede non è stato rispettato il principio di sussidiarietà, a livello delle cause stesse della crisi. Anche nelle risposte alla crisi, però, non si rispetta sempre il principio di sussidiarietà. Gli interventi degli Stati nel capitale delle grandi banche o delle grandi imprese può essere dettato da ragioni di urgenza. Rimane comunque preferibile, in linea teorica, fornire aiuti indiretti piuttosto che diretti. In ogni caso gli aiuti dati in forma diretta dovrebbero chiaramente prevedere il carattere di supplenza e di temporaneità e non costituire una nuova stabile presenza dello Stato nell’economia. La crisi, allora, è occasione per ripensare i fondamentali della finanza, al fine di renderla nuovamente funzionale alla produzione, come il Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace ha affermato nella Nota in vista della Conferenza di Doha sul finanziamento allo sviluppo dello scorso dicembre.

Vediamo insieme altri due ambiti di applicazione del principio di sussidiarietà. Il primo è quello della società civile, il secondo è quello della riforma dello Stato. Questa sera ci troviamo qui in un contesto di cooperative sia di produzione che sociali. Questa è una espressione produttiva ed economica della società civile. Credo di non dire niente di nuovo se affermo che la tendenza della pubblica amministrazione a scaricare almeno in parte i costi della crisi su queste realtà sia oggi molto forte. Questo, però, sarebbe negativo e non corrispondente al principio di sussidiarietà, se non corrisposto anche da una ristrutturazione interna della stessa pubblica amministrazione. A questo proposito devono essere fatte due importanti osservazioni. In tempi di crisi la diversità di situazione tra impiego pubblico, impiego privato e impiego nel terzo settore si fa sentire in modo particolarmente acuto. Si tratta di diversità sempre meno tollerabili, sia in termini retributivi che di precarietà. Non è dilazionabile – ed in parte molti governi ci stanno lavorando – un adeguamento di trattamento, anche in termini di criteri di produttività e ritengo che i sindacati più moderni siano consapevoli che il mantenimento di queste disparità è contrario alla solidarietà tra i lavoratori. Quando l’economia di una nazione è in crisi, bisogna seriamente interrogarsi sulla produttività del lavoro negli enti pubblici. Sono d’accordo che anche bisogna intervenire sulle retribuzioni dei manager, sia privati che pubblici, in quanto un rapporto di 1 a 300 tra livello retributivo minimo e livello massimo sembra eccessivo, ma ancor di più bisogna approfittare dell’occasione – ecco che torna il termine in questione – per continuare la riforma della pubblica amministrazione a cui è strettamente legata anche quella del Welfare, a cominciare da scuola e sanità. Qualche anno fa si diceva che la riforma del Welfare State è resa obbligatoria dalla concorrenza globale, che impone di ridurre i costi interni. Oggi, a maggior ragione, si deve dire che tale riforma è resa obbligata dalla crisi internazionale, che non attenua ma, anzi, accentua la concorrenza. Per esempio, un sistema scolastico costoso e improduttivo, specialmente oggi, in tempi di crisi, non è più sostenibile. Molti servizi sanitari di base o di assistenza possono essere forniti da soggetti della società civile, a costi inferiori. Un recente Rapporto sull’economia sociale nell’Unione Europea testimonia che il Terzo settore è in crescita ovunque e che oggi in Europa ci sono 2 milioni di imprese non-profit. Le cooperative sociali sono passate da 2.403.245 utenti nel 2003 a 3.302.551 nel 2005, quasi un milione in più. E’, come si vede, una strada obbligata, che spesso però si percorre per necessità, costretti dai problemi di bilancio e senza un piano. Bisognerebbe ampliare questo settore, piuttosto che scaricare su di esso le lentezze con cui la pubblica amministrazione rivede i propri assetti e i tagli dei costi nei pubblici servizi.

La crisi potrebbe essere una grande occasione per dislocare diversamente, in base al principio di sussidiarietà, le cose da fare. Questo comporta una volontà politica di riconsiderare gli interventi dello Stato, cosa resa oggi difficile dal “nuovo interventismo”. Temo che questo nuovo interventismo, per certi versi plausibile e necessario se attuato in via provvisoria e di supplenza, possa suscitare però una mentalità da vecchio Welfare, che potrebbe frenare la riforma dello Stato stesso in senso sussidiario. La sofferenza finanziaria in cui si trova il mondo della cooperazione, anche di quella sociale, ne è un sintomo. Certo che una simile dislocazione di cose da fare dovrebbe anche essere sostenuta più convintamente dallo stesso mondo no-profit. Non c’è dubbio che esso oggi svolga una funzione di ammortizzatore sociale. Ma limitarsi a ciò sarebbe troppo poco. In questi tempi di crisi, il terzo settore e specialmente le imprese sociali, riducono i costi, spingono maggiormente sul volontariato, razionalizzano le risorse interne, si inventano nuovi servizi e lavori, finanziano gli stessi enti pubblici dati i ritardi nei pagamenti, sono le uniche imprese ad assumere lavoratori, pur tra mille difficoltà. Svolgono, quindi, un importante servizio di coesione sociale. Limitarsi a questo, tuttavia, significa accettare comunque un ruolo residuale. La crisi può essere occasione di collaborare di più tra le realtà economiche della società civile e di elaborare progetti di ampio respiro nei quali sia i partner privati sia i partner pubblici possano trovare la possibilità di ridurre i costi e di ottenere risultati di efficienza, mediante forme integrate di collaborazione tra privato-terzo settore e Stato, come chiedeva, ormai quasi vent’anni fa, la Centesimus annus.

La crisi è occasione di un nuovo protagonismo del terzo settore anche per un altro motivo molto importante. Dicevamo sopra che il mercato consuma presupposti che non è poi in grado di ricostruire nel caso vengano meno. Questi presupposti sono i valori immateriali di cui il mercato ha enorme bisogno, ma che non possono essere prodotti come un qualsiasi altro bene materiale. La fiducia o l’attitudine a rispettare le regole, atteggiamenti di solidarietà e di aiuto reciproco, la capacità di esprimere rapporti non solo monetari ma di amicizia e reciprocità, l’idea che spesso si dà senza pretendere di ricevere anche dentro le transazioni economiche … tutto questo non è niente di economico, eppure è l’ossigeno di cui l’economia ha bisogno. Ora, il mondo no profit rappresenta l’ambito privilegiato per la maturazione di queste attitudini, quindi per la creazione del capitale sociale di una comunità. Non che gli atteggiamenti suddetti non si diano nel settore privato o in quello pubblico. In questi due ambiti, però, la motivazione prima dell’agire è il dovere. Si agisce per dovere in quanto qualcuno ci ha pagato oppure perché una legge ci obbliga a farlo. Queste sono le due diverse logiche del mercato e dello Stato, considerate in se stesse. So bene che così, allo stato puro, non si danno nella realtà, ma ciò non toglie che senza di queste due logiche né l’uno né l’altro potrebbe costituirsi. A seguito di queste motivazioni legate al dovere ci possono poi andare anche motivazioni di altro genere, ma non sono la primaria motivazione. Nel terzo settore, invece, la gratuità, nel senso di impostare sì le cose nel rispetto del mercato e delle leggi, ma partendo dal presupposto di una motivazione originaria che non chiede niente in cambio, la gratuità, dicevo, emerge con maggiore forza e originarietà, pur nelle difficoltà legate alla quotidianità che tutti noi conosciamo. E questo è un patrimonio dell’intera società, specialmente in questi momenti difficili ed uno dei principali motivi di resistenza e di ripresa.

Quest’ultima osservazione mi offre la possibilità di una riflessione su quanto la Chiesa sta facendo davanti alla crisi. Il quadro universale è di una Chiesa molto impegnata nella carità. Anche nella nostra Italia, come voi sapete, le diocesi hanno dato vita a diverse iniziative per l’aiuto alle famiglie in difficoltà. La stessa Conferenza episcopale italiana, dopo che numerose diocesi si erano mosse autonomamente, ha fatto proprio il disegno complessivo, costituendo un fondo di garanzia per piccoli prestiti. In genere ci si appoggia sulla Caritas, oppure si cerca di mobilitare maggiormente le realtà istituzionali, enti locali e banche prima di tutto. Si tratta di iniziative meritevoli del nostro plauso, espressione di quella carità espressione diretta delle strutture ecclesiali che giustamente la Deus caritas est dice non verrà mai meno, anche in una ipotetica società perfetta. Se però si limitasse l’azione della Chiesa a queste forme di carità diretta, non si darebbe ragione del messaggio della Dottrina sociale della Chiesa e si attuerebbe una lettura riduttiva della stessa Deus caritas est. Non possiamo infatti dimenticare l’obbligo non solo di esercitare queste forme di aiuto diretto a chi è nel bisogno, ma anche altre forme che passano attraverso la creazione di “opere”. Sempre, nei momenti di difficoltà, i cristiani non si sono accontentati di dare direttamente da mangiare agli affamati e da bere agli assetati, ma hanno messo in piedi imprese, società di mutuo soccorso, cooperative ci consumo, attività produttive che producano posti di lavoro. Chiamiamola una carità indiretta, o estensione sociale della carità. Non possiamo pensare che compito nostro sia solo di attivare la Caritas, mentre al resto dovrebbe pensare lo Stato, il sistema bancario, gli enti locali, le politiche governative eccetera. Se così pensassimo, vorrebbe dire aver perso l’idea di una presenza pubblica del cristianesimo dentro l’economia e la politica reali, e lo avremmo già ridotto a strumento per lenire le ferite, una volta che queste sono state fatte. Ma il cristianesimo ha anche l’energia per produrre idee che facciano funzionare l’economia in modo che non produca ferite. Anche questa è una forma di emarginazione: ridurre il cristianesimo ad assistenza diretta ai bisognosi e privarlo di un ruolo incisivo sulle strutture organizzative, sui processi decisionali dell’economia e della finanza. Tornando alla ragione e alla luce della fede, di cui parlavamo all’inizio, il cristianesimo ha la pretesa di essere necessario alla ragione, non perché esso la privi della sua autonomia, anzi: con la propria luce di verità, il cristianesimo pone anche alla ragione il problema della sua verità, le permette di riappropriarsi pienamente di se stessa. Ciò vale anche per la finanza e per l’economia, alle quali la fede cristiana non toglie niente di quanto è legittimamente loro proprio, ma le aiuta ad essere pienamente se stesse. Il cristianesimo non può essere solo assistenza e aiuto caritatevole. La carità infatti non elimina la giustizia, anzi la rende possibile. Ben vengano, allora, le risposte dei cristiani alla crisi che non siano rinuncia a pensare in proprio, a progettare in proprio, ad organizzare in proprio. La Deus caritas est di Benedetto XVI non ritiene che l’unica forma di carità della Chiesa si quella che direttamente essa fornisce tramite le sue strutture assistenziali, ma anche quella che essa fa stramite gli imprenditori cattolici, le cooperative di ispirazione cristiana istituzioni bancarie nate dalla storia del cattolicesimo sociale e che in questa crisi potrebbero riscoprire la loro ispirazione originaria e, infine, quella che può essere data tramite opere economiche e sociali di nuova concezione, perché non possiamo pensare che l’originalità cristiana si sia fermata al secolo scorso. La crisi è una occasione anche a riscoprire l’identità cristiana nelle opere economiche e sociali. Collaborare con tutti non vuol dire impedirsi di avere una identità; il cristianesimo ha qualcosa di proprio e di necessario da dire e non si deve tendere ad una vaga etica sociale planetaria, che la crisi renderebbe necessaria. La collaborazione tra tutti gli uomini di buona volontà, o, come si usa dire più di recente, tra tutti gli uomini che ricercano la verità, non richiede un indistinto minimo comun denominatore.

Sulla spinta di questo tema della carità, vorrei toccare un ultimo aspetto del problema che mi sta particolarmente a cuore. A proposito dello scorso G20 di Londra, il nostro Osservatorio Cardinale Van Thuân ha consegnato alle agenzie un Documento che è stato ampiamente ripreso e a cui anche “L’Osservatore Romano” ha dato un lusinghiero risalto [mi dicono gli organizzatori di questa serata che copia del Documento è stato consegnato anche a voi]. In questo Documento ci si sofferma molto sul ruolo del principio di sussidiarietà per risolvere la crisi, e di questo ho già trattato. Ci si sofferma però anche su un altro aspetto, che non posso tralasciare: la crisi è occasione per ripensare l’economia tenendo conto delle esigenze dei poveri e giungendo finalmente a riconoscerli come una risorsa e non come un fardello, secondo le note parole dalla Sollicitudo rei socialis. La crisi rende concreto un pericolo: che cessino i finanziamenti allo sviluppo, che già erano precari. Molti paesi non hanno ottemperato all’obbligo assunto di dedicare lo 0,7 del proprio pil a questa finalità e l’annullamento dei debiti dei paesi poveri spesso è stato inteso non come addizionale ma come compreso dentro quello 0,7. Voi tutti ricorderete come il Santo Padre ha aderito all’acquisto dei primi bond del progetto lanciato dall’allora Cancelliere dello Scacchiere Gordon Brown dell’International Financing Facility for Immunisation, inviando il 7 novembre 2006 il cardinale Martino alla City di Londra per acquistarli. Con l’attuale crisi si rischia che la finanza per lo sviluppo, anche quella innovativa, si inaridisca. Ecco perché il Documento del nostro Osservatorio ha chiesto che le future decisioni del G8 della Maddalena tengano conto dei deliberati della Conferenza di Doha sugli aiuti allo sviluppo. Bisogna pensare di uscire dalla crisi non solo riattivando i sistemi finanziari dei paesi sviluppati ed emergenti, ma anche bloccando la volatilità dei capitali e lo scandalo dei paradisi artificiali e delle banche off shore, che sono tante e molto diffuse. Su questo non mi faccio illusioni, so come per raggiungere questi obiettivi sia necessario un ampio consenso, dato che spesso anche paesi che tuonano contro i paradisi artificiali, di fatto li ospitano e li adoperano. So anche che la loro soppressione dovrebbe essere concomitante, altrimenti della soppressione degli uni beneficerebbero gli altri. Indubbiamente, non è cosa facile. Però l’occasione c’è, che non riusciamo a coglierla è possibile, ma è colpa nostra. La necessità di cambiare le regole per far sì che anche i poveri avvedano al mercato è anche un interesse dello stesso mercato. Che però egli non riesce a conseguire da solo.

In conclusione di questo mio intervento vorrei riprendere alcuni passi della Quadragesimo anno, l’enciclica scritta da Pio XI nel 1931, in piena depressione seguita alla crisi del settembre 1929. E’ sorprendente come questa enciclica, a lungo ritenuta ormai datata, mostri invece oggi una nuova giovinezza. Non dobbiamo mai consegnare troppo frettolosamente al passato quanto affermano le encicliche sociali. Pio XI diceva che si era allora costituita una «dispotica padronanza dell’economia in mano di pochi, e questi sovente neppure proprietari, ma solo depositari ed amministratori del capitale, di cui essi però dispongono a loro grado e piacimento» (n. 105). Chiaro il riferimento alla nuova classe dei manager. Questo ha distrutto il mercato, secondo Pio XI, e ad esso è «subentrata la egemonia economica, l’internazionalismo bancario o imperialismo internazionale del denaro, per cui la patria è dove si sta bene» (n. 109). Chiari, qui, i riferimenti allo strapotere della finanza e alla sua completa mancanza di responsabilità. Secondo Pio XI si era arrivati a questo per tre motivi. Il primo – attualissimo anche per noi – è la bramosia dei “facili guadagni” sicché costoro, «con la sfrenata speculazione fanno salire ed abbassare i prezzi secondo il capriccio e l’avidità loro» (n. 132). Il secondo – anche questo molto attuale per noi - è la colpa dei legislatori: «Le disposizioni giuridiche, ordinate a favorire la cooperazione dei capitali, mentre dividono la responsabilità e restringono il rischio del negoziare, hanno dato ansa alla più biasimevole licenza, e sotto la coperta difesa di una società che chiamano anonima, si commettono le peggiori ingiustizie e frodi» (n. 132). Il terzo, relativo alla dimensione culturale della crisi: «… ne nacque una scienza economica separata dalle legge morale; e per conseguenza alle passioni umane si lasciò libero il freno. Quindi avvenne che in molto maggior numero di prima furono quelli che non si diedero più pensiero di altro che di accrescere ad ogni costo la loro fortuna» (n. 133). Una lettura in profondità questa di Pio XI e, fatta la tara per i legami con il suo momento storico, molto istruttiva anche per noi. Di tossico non ci sono solo i fondi. Come si vede la Dottrina sociale della Chiesa non ha soluzioni da proporre, ma ha molto da dire.