Associando il mulino ad una girandola mossa dall'acqua devo proporvi lo splendido brano “
Le macchine della mia infanzia” (1924),
Bruno Munari, in “
Arte come mestiere”
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La porta del museo Museo Civico
Antonio Eugenio Baruffaldi, Badia Polesine |
Il luogo della Macchina era lontano. Partivamo verso le prime ore del
pomeriggio uscendo dal paese dalla parte dell’Abbazia Vangadìzza,
costeggiavamo l’Adigetto all’ombra di un viale di tigli odorosi e, dopo
una lunga strada polverosa e assolata, arrivavamo in vista dell’argine
enorme, più grande del paese, dominante, coprente tutto l’orizzonte a
perdita d’occhio sia a destra che a sinistra.
Alcune scale di pietra servivano per arrivare in cima all’argine, ma noi
salivamo arrampicandoci e faticando sul grande rilievo di terra,
attraverso le coltivazioni di erba spagna che sentivamo fresca contro le
ginocchia nude.
Dalla sommità dell’argine lo spettacolo toglieva il fiato, anche perché avevamo fatto la scalata di corsa.
E la nostra Macchina era là, galleggiante sull’acqua, vicino a riva: un
vecchio mulino di legno che sembrava costruito da Robinson Crusoe.
Il cielo era immenso e il vento ci scompigliava i capelli; la grande
massa d’acqua grigia dell’Adige scorreva lenta disegnando qua e là
gorghi pericolosi.
Per me e per i miei amici quell’acqua veniva dall’ignoto e andava verso
l’ignoto, trasportando pezzi d’alberi e rami secchi, ciuffi di erbe e
cespugli sradicati, qualche volta oggetti strani e gatti morti.
Passavamo uno alla volta sulla stretta passerella di legno che collegava
il mulino alla riva, ed eravamo sulla zattera fatta con tante assi
legate assieme e poggiate su due grandi barconi.
Al centro della zattera sorgeva la capanna col tetto di paglia.
Di fianco alla capanna, verso il fiume, la Grande Ruota girava lentamente.
Tutta la Macchina era di vecchio legno ormai grigio e con le venature
messe in rilievo dalle intemperie; solo i perni metallici della ruota e
delle macine brillavano lucidati dal continuo attrito, dentro la capanna
in penombra tra ragnatele infarinate e sacchi pieni dalle forme umane.
Tutta la Macchina cigolava, scricchiolava, sussurrava, borbottava,
gorgogliava e si potevano distinguere dei ritmi determinati soprattutto
dalla rotazione della ruota.
La Grande Ruota era uno spettacolo continuamente variato: con una
calcolata lentezza estraeva dal fiume meravigliose alghe ed erbe
acquatiche verdi come di vetro morbido, le faceva brillare al sole, le
alzava fin che poteva e poi le abbassava sempre lentamente, immergendole
di nuovo in uno scintillio di gocce con rumore di pioggia rada e
continua che faceva come da fondo sonoro agli altri rumori del mulino.
Ogni tanto si sentiva odore di farina e dì alghe, di acqua e di terra, di legno secco e di muschio.
E ogni tanto la Grande Ruota pescava assieme alle piante del fiume
qualche penna di gallina o pezzo di carta o foglia d’albero per variare
le sue composizioni vegetali.
E mentre i miei amici correvano in tutti gli angoli praticabili del
mulino, cercavano di scassinare la porta della capanna, tiravano sassi
agli uccelli acquatici; io ero là, vicino alla Grande Ruota, con l’acqua
del fiume che passava continuamente sotto le assi sulle quali ero
appoggiato, come sospeso per aria, ad ammirare lo spettacolo continuo
dei colori, delle luci, dei movimenti della Grande Ruota.
Oggi come oggi, sono andato in macchina a vedere se c’era ancora il
mulino; la strada è brevissima, l’argine è basso, il mulino non c’è più.