giovedì 5 marzo 2009

S.E. mons. Giampaolo Crepaldi Segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace Le paure del nostro tempo e la speranza cristiana

S.E. Giampaolo Crepaldi Segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace

Le paure del nostro tempo e la speranza cristiana Conferenza a Piacenza 5 marzo 2009

Un passo dell’enciclica “Spe salvi” di Benedetto XVI ci fa comprendere molto bene cosa saremmo e come vivremmo se non ci fosse stata aperta la porta della speranza: «Se non possiamo sperare più di quanto è effettivamente raggiungibile di volta in volta e di quanto di sperabile le autorità politiche ed economiche ci offrono, la nostra vita si riduce ben presto ad essere priva di speranza»[1]. Noi ci guardiamo attorno e, così facendo, vediamo “quanto di sperabile le autorità politiche ed economiche ci offrono”. Ma non è un panorama che ci rassicuri poi molto. I governi dell’Europa e dell’America hanno finora immesso negli Istituti di credito ben 370 miliardi di dollari, ma non è stato sufficiente non dico a risolvere la crisi, ma nemmeno a far percepire un qualche segnale di ripresa. Si è aggiunto il pericolo del fallimento delle banche dell’est europeo e, qualche esperto ha anche cominciato a chiedersi perché mai non potrebbero fallire anche gli Stati[2].

Su un altro versante di timori e paure, abbiamo dovuto assistere all’impotenza dei pubblici poteri a salvare la vita di Eluana Englaro. Non sono riuscito a capire bene cosa impedisse di intervenire. Non sono costituzionalista, ma semplice cittadino. E come cittadino mi è sembrato che salvare una vita non potesse essere incostituzionale, o almeno che non lo dovesse essere.

Su un terzo versante di preoccupazione, quello della immigrazione e della convivenza tra culture e religioni diverse, dobbiamo riscontrare che il modello del multiculturalismo e della laicità intesa come neutralità ha fallito[3]. Questo ci mette inquietudine. Da un lato le culture si sono limitate a convivere in modo parallelo, senza rispettarsi e senza integrarsi, dall’altro gli Stati pretendono di garantire uno spazio pubblico neutro da assoluti religiosi imponendo la laicità come un assoluto. Sulla recente sentenza spagnola contro i simboli religiosi nelle scuole pubbliche si è fatto notare che la scelta negativa rispetto a Dio è una scelta tanto assoluta quanto quelle positive e che lo Stato non può imporla senza venir meno al proprio dovere di imparzialità[4]

Sentiamo che ci vuole qualcos’altro oltre “quanto di sperabile le autorità politiche ed economiche ci offrono”. Coltiviamo addirittura l’idea che tante paure che tutti noi oggi proviamo e delle quali ho fornito tre esempi tra i più drammatici, siano dovute, alla fine, dalla corrosione della speranza. Ecco, forse, perché la ripresa non può venire solo dall’alto. Per questo, infatti, sentiamo in questi momenti di crisi e timore, una spinta, quasi un dovere, a mobilitarci, ad assumerci delle responsabilità, anche se non apparteniamo al ceto delle “autorità politiche ed economiche”. La speranza rende liberi.

Concedere dei mutui-casa sapendo della probabile insolvibilità dei contraenti; vendere questi mutui-casa dentro prodotti finanziari che passano di mano in mano per motivi speculativi, impacchettare questi prodotti finanziari dentro fondi di investimento collocati in borsa senza far trasparire la loro “tossicità” … tutto questo potrebbe sembrare fiducia nel domani, speranza, ma in realtà si tratta di strumentalizzare la speranza, di volerla in qualche modo dominare e sfruttare. Si è speculato sulla speranza. Una banca che vende, nelle modalità suddette, un rapporto fiduciario con una famiglia (perché in questo consiste un credito per l’acquisto della casa) credo si possa dire che specula sulla speranza. Abbiamo come la sensazione che in questi ultimi tempi sia stata corrosa quella speranza che nasce dalla realtà e dalle vere relazioni umani, dal lavoro e dalla fiducia, dalla conoscenza vicendevole e dalla solidarietà vissute come vocazione. Questo faceva la solidità della nostra speranza. Il lavoro visto come vocazione, il credito visto come espressione di fiducia e finanziamento per rendere possibile una vocazione, la vita vista come vocazione, da rispettare e pietosamente servire, anche quando non è più produttiva. L’altro, il fratello, il migrante, visto come una vocazione. Questo apriva il nostro cuore alla speranza, perché ci poneva in ascolto di qualcosa che non nasceva da noi, ma che ci interpellava da fuori o, meglio, da davanti. Qualcosa che ci veniva incontro[5].

Ora che le grandi banche, abituate a concedere prestiti sulla base di dati di rating senza aver visto mai in volto colui che richiede il credito, sono in crisi o sono puntellate, indirettamente o direttamente, dagli Stati, si riscopre la vecchia banca dislocata sul territorio, le casse rurali e le banche di credito cooperativo, che concedono i prestiti conoscendo la persona, la sua famiglia e la sua storia. Oggi molte piccole e medie imprese sono in difficoltà, ma ci sono due tipi di imprenditori. Quelli rampanti e spregiudicati, figli della mentalità della crescita indefinita, dell’indebitamento allegro e del guadagno nel breve termine, e quelli del buon senso antico, con i piedi per terra, che trattano i dipendenti come familiari e che possono contare su una solidarietà e una partecipazione allargata. I primi falliscono, i secondi, anche se a gran fatica, reggono. Ora si scopre l’importanza del microcredito, delle cooperative sociali che garantiscono i posti di lavoro anche nelle difficoltà e fanno da ammortizzatori sociali, riuscendo perfino a finanziare gli enti pubblici, dati i tempi con i quali questi ultimi assolvono ai loro impegni economici in questa epoca di ristrettezze. Ecco molti esempi di fiducia, di collaborazione, di solidarietà che ci danno speranza perché sono animati dalla speranza. Tutto questo mi fa pensare che questo momento di crisi sia il momento dei piccoli e non solo dei grandi.

Oggi ci troviamo davanti ad una crisi che investe soprattutto i tre ambiti che ho in precedenza richiamato: quello economico-finanziario, quello della convivenza tra culture e religioni diverse a seguito delle immigrazioni, quello della vita. In tutti e tre la paura è generata dalla carenza di speranza. Sull’ultimo ambito, quello della vita, permettetemi di dire qualche parola in più. Sono fortemente preoccupato e direi perfino angosciato dalla deriva eugenetica che l’ingegneria genetica sta assumendo[6]. Veramente aveva ragione Benedetto XVI a dire che con l’inseminazione artificiale veniva sfondata la soglia della dignità della persona[7]. Le diagnosi prenatali e le diagnosi preimpianto sempre più comportano quasi automaticamente l’uccisione del nuovo essere. La carenza di speranza produce l’indebolimento della carità e nella morte di Eluana Englaro io ho intravisto un vulnus alla pietas per il sofferente e a quella carità cristiana che ha permeato di sé, anche laicamente, la nostra civiltà.

La carenza di speranza è un atto di superbia che corrode anche la carità, in quanto pone tutte le soluzioni nelle sole nostre mani e ci fa convinti che il mondo si possa aggiustare senza essere buoni. O che si possa essere buoni senza volerlo, per una specie di meccanismo o biologico, o economico o politico. Infatti davanti alla crisi finanziaria e ai problemi della bioetica si invocano soprattutto soluzioni tecniche, che non possono essere soluzioni di nulla dato che il problema stesso non è tecnico. Gestire fondi “tossici” non è questione tecnica, dato che nessuna regola della finanza lo richiede.

La mancanza di speranza indebolisce poi la volontà, in quanto non le permette di guardare oltre se stessa. E’ così che si pretende che i desideri diventino diritti. La parola “desiderio” può avere due significati. Nel primo esso è “attesa”, e in questo senso il desiderio è aperto alla speranza, anzi si fonda sulla speranza, è speranza[8]. Nel secondo esso è “pulsione”, una spinta che nasce da noi e che pretende esaudimento e in questo senso esso si oppone alla speranza, che è disponibilità a quanto irrompe e non dipende da noi. La volontà si trasforma in desiderio, inteso in questa seconda accezione quando manca la speranza.

Infine la mancanza di speranza indebolisce la ragione, perché questa non è più in grado di guardare al di là di se stessa. Niente le sta davanti e niente la chiama, niente la spinge, niente le apre nuove porte da varcare.

La volontà ha bisogno della ragione che le indichi la strada, ma la ragione ha bisogno della speranza che le permetta di vedere oltre se stessa[9]. C’è un termine per esprime questi legami: «purificazione»[10].

Queste osservazioni ci permettono di mettere a punto alcuni atteggiamenti cristiani nei confronti della crisi attuale e delle paure che stanno diffondendosi tra la gente.

Il giorno del primo giovedì di Quaresima, in una risposta ad un sacerdote romano, che gli chiedeva un orientamento pastorale davanti alla crisi economia e sociale di oggi, Benedetto XI ha detto che la Chiesa deve denunciare «questa idolatria che sta contro il vero Dio e la falsificazione dell´immagine di Dio con un altro Dio, “mammona”». Ha però anche aggiunto che «dobbiamo farlo con coraggio ma anche con concretezza. Perché i grandi moralismi non aiutano se non sono sostanziati con conoscenze delle realtà, che aiutano anche a capire che cosa si può in concreto fare per cambiare man mano la situazione. E, naturalmente, per poterlo fare è necessaria la conoscenza di questa verità e la buona volontà di tutti». Abbiamo in questo passo tutti i concetti su cui ci siamo finora intrattenuti. La Chiesa non denuncia mai come prima cosa. Come prima cosa essa annuncia. Così la denuncia è sempre finalizzata al positivo e si radica nella speranza. La speranza dell’annuncio, però, va fatta con coraggio ma anche con concretezza, dando il debito spazio alle ragioni della realtà e alle logiche dell’economia o della finanza, tanto per rimanere nel campo di cui parlava il papa. Non si può fare il bene “contro” la razionalità economica [11]. Qui entra in gioco la ragione che tiene conto in tutti i campi della realtà, che è il vero criterio della verità. Annunciare senza preoccuparsi della concreta realtà significa fare del moralismo. Viceversa, occuparsi della concreta realtà senza tener conto dell’annuncio significa legarsi al pragmatismo. L’amore vuole essere ragionevole. Poi, però, per poter fare quanto si vede giusto fare, ci vuole la volontà, bisogna volerlo fare. E’ questo, in fondo, che genera la paura di oggi. Prima di tutto la carenza di speranza e il non saper più vedere nella persona, nel lavoro, nell’altro un “annuncio”, ossia una vocazione. Subito dopo viene la carenza di razionalità, la sfiducia nella ragione e quindi nell’uomo, sicché la speranza, se anche ci fosse, non troverebbe radicamento, non potrebbe essere accolta concretamente perché passerebbe al di sopra della nostra concreta realtà. Non ci sono forse anche oggi forme spurie di annuncio che quasi plaudono alla crisi perché permetterebbe di prendere coscienza della crescita come male radicale e di transitare quindi verso forme di “decrescita” o di “dopo sviluppo”?[12] La speranza va strutturata, come ebbe a dire molti anni fa Giovanni Paolo II durante una visita pastorale a Napoli, e per strutturarla serve la ragione, le discipline, le competenze, la politica. Poi, però ci vuole la volontà, la libera decisione delle persone perché non ci sarà mai giustizia senza uomini giusti.

Ho adoperato spesso in queste righe la parola vocazione[13]. L’ho fatto perché mi sembra che possa far capire come la speranza possa illuminare la concretezza della vita. Il restringimento della nostra ragione alle sole verità empiriche ha comportato l’atrofia della vocazione sicché fatichiamo a vedere nelle cose, nella vita, negli altri e nel nostro lavoro una “chiamata”. Esse si appaiono solo come dei dati, muti e privi di prospettiva, più che come progetti che ci sono affidati e che interpellano la nostra responsabilità. Sta qui il fondamento di uno dei principi fondamentali della dottrina sociale della Chiesa, quello di sussidiarietà, che rimane inspiegabile senza la speranza e senza la vocazione[14]. La richiesta della libertà ha senso solo finalizzata all’assunzione di responsabilità: la sussidiarietà implica un sistema di libertà responsabile. Ma la responsabilità è impossibile se non come risposta ad una vocazione. Solo dopo aver letto nella realtà un disegno e un progetto è lecito rivendicare spazi di libertà per contribuire alla realizzazione di quel disegno, che non è frutto del desiderio perché non lo abbiamo creato noi.

Ora, se osserviamo bene, alla radice di molte crisi attuali che si impauriscono c’è la mancanza della sussidiarietà, ossia il diniego di mettersi al servizio di una vocazione e di assolvere ad un compito. La finanza dovrebbe essere sussidiaria all’economia reale, cioè alle famiglie e alle persone, ma non lo è stato. La medicina e la politica dovrebbero essere sussidiare ella vita, ma nel caso di Eluana Englaro non lo sono state. Le singole culture sono sussidiarie alla comune umanità, ma nel multiculturalismo non lo sono state. Alla radice c’è un difetto ad accogliere, che è frutto di una antropologia del desiderio contrapposta ad una antropologia della vocazione.

«Dio è il fondamento della speranza, non un qualsiasi Dio, ma quel Dio che possiede un “volto umano” e che ci ha amati fino alla fine»[15]. La speranza dal volto umano è la speranza ragionevole, reale, non ingannevole. La speranza dal volto umano è quindi amore, che non inganna e vuole il vero bene di chi ama.


[1] Benedetto XVI, Enciclica Spe Salvi, n. 35.

[2] M. Longo, Così è crollato il castello di carta, “Il Sole 24 Ore”, 1 marzo 2009, p. 5.

[3] S. Fontana, Il fallimento del multiculturalismo in due opere recenti, “Bollettino di Dottrina sociale della Chiesa” V (2009) 1, pp. 27-28. Cf.: W. Laqueur, Gli ultimi giorni dell’Europa. Epitaffio per un vecchio continente, Marsilio, Venezia 2008; P. Donati, Oltre il multiculturalismo, Laterza, Roma-Bari 2008.

[4] T. González Vila, Simboli religiosi e luoghi educativi pubblici, “Bollettino di Dottrina sociale della Chiesa” V (2009) 1, pp. 21-23. Sul concetto di laicità mi sono ampiamente soffermato in G. Crepaldi, Dio o gli dèi. Dottrina sociale della Chiesa, percorsi, Cantagalli, Siena 2008.

[5] Martin Buber dice che ogni autentica relazione “capita”, non si può programmare, ci viene incontro (Cf. M. Buber ., Il principio dialogico ed altri saggi, San Paolo, Cinisello Balsamo 1993).

[6] Lo aveva previsto G. Chesterton, Eugenetica ed altri malanni, Cantagalli, Siena 2008. Vedi Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione Dignitatis personae su alcune questioni di bioetica, 8 dicembre 2008. Per una sintesi dell’importante documento vedi: http://www.vanthuanobservatory.org/p/news.php?id_news=672.

[7] Benedetto XVI, Discorso all’Assemblea Plenaria della Congregazione per la Dottrina della Fede, 31 gennaio 2008.

[8] «L’uomo ha bisogno di Dio» dice la Spe Salvi (n. 23). Ecco il senso di bisogno come “attesa”. Interessanti considerazioni sul bisogno come “attesa”, pur dall’interno di una biografia molto particolare come fu quella di Simone Weil, si trovano in S. Weil, Attesa di Dio, Adelphi, Milano 2008. Si veda anche J. Prades Lopez, Nostalgia di Resurrezione, Cantagalli, Siena 2007.

[9] Benedetto XVI, Enciclica Spe Salvi, n. 23.

[10] Benedetto XVI, Deus caritas est, n. 28.

[11] Cf S. Fontana, L’immateriale nell’economia. Crisi finanziaria e ripensamento di alcune categorie economiche, “Bollettino di Dottrina sociale della Chiesa” V (2009) 1, pp. 8-10.

[12] S. Latouche, Come sopravvivere allo sviluppo, Bollati Boringhieri, Torino 2005.

[13] G. Crepaldi, Dio o gli dèi cit,, pp. 11-18: «La persona umana tra vocazione e alienazione. La visione dell’uomo nella Dottrina sociale della Chiesa».

[14] G. Crepaldi, Ivi,, pp. 195-106: «libertà e responsabilità della società civile. La regola della sussidiarietà».

[15] Benedetto XVI, Enciclica Spe Salvi, n. 31.