giovedì 23 ottobre 2008

'Finis Coronat Opus' note del prof. Kunkle riprese nelle Lezioni magistrali di Padre Contardo Zorzin o.c.d. Brescia-Mantova-Verona


(foto: san michele, museo diocesano di Brescia,'08)

Psicoterapia e carattere (educazione, autoeducazione e assistenza spirituale) di FRITZ KÜNKEL , la scuola editrice, Brescia

... alcuni punti di rapida sintesi per memoria, qui in relazione e riferite al solo Kunkel, che però ricordano con grande piacere -ai Ctg Lombardi tutti- le magnifiche lezioni (interculturali e interdisciplinari) del carissimo padre Contardo Zorzin o.c.d. ( vedere Sue pubblicazioni e qui i post sotto la voce 'recensioni' .... e... le prossime ristampe tra cui Obbedienza e Verità ... ed anche ricordiamo l'attesissima, si spera entro la fine 2008, traduzione del Dottore della Chiesa San Giovanni della Croce, carmelitano scalzo ... ma avremo modo di ritornare in merito..)
...da kunkle ... sull' autoeducazione sia della donna sia dell'uomo ...: ci ricorda....:
[1ª regola] Renditi conto che sei contemporaneamente soggetto oggetto, che sei libero e responsabile, che non puoi sottrarti alle conseguenze della tua condotta e che devi portare le conseguenze anche della fuga dalle conseguenze.
[2ª regola] Chi soffre deve chiedersi perché e in che modo cerca di sottrarsi all’alternanza vitale di essere soggetto e oggetto e se cerca di essere in troppo alto grado solo soggetto o solo oggetto. E deve sforzarsi di trovare la via per la quale possa nuovamente arrivare ad essere armonicamente l’uno e l'altro: deve cercare la via della responsabilità.
[3ª regola] Se tu fai di un uomo (che si tratti di te stesso o di un altro) l’oggetto del tuo studio e della tua influenza, non dimenticare mai che egli è più che un semplice oggetto: che è un soggetto inconoscibile, imprevedibile, libero e creatore.
[4ª regola] Non si chieda da che cosa, da quali cause sia determinata l'attività dell'uomo; ma per che cosa, al servizio di quale fine l'uomo si comporta in un certo modo.
[5ª regola] Ci si opponga a quella che si ritiene sia l'immagine direttrice e dalla reazione più o meno violenta si riconoscerà immediatamente se si è colpita l'immagine giusta, e con quale tenacia viene difesa. Quanto meno l'immagine direttrice è rigida, tanto più fiaccamente saranno respinti tali attacchi.
6ª regola] Non combattere separatamente le singole linee direttrici, ma cerca d'individuare l'immagine direttrice di cui sono al servizio e convinciti che l’uomo o si trasforma per intero o non se ne fa niente, perché l’uomo è un essere unitario.
[7ª regola] Di fronte a fatti contrastanti chiediti sempre a che fine servano, cerca di determinare il loro scopo comune e troverai l’immagine direttrice alla quale servono come mezzi, diversi secondo le diverse circostanze della vita. Ma se invece non riesci a trovare quello scopo unitario, vuol dire che tu chiudi ancora gli occhi dinanzi alla verità, che non hai il coraggio di fissare la smorfia diabolica dell'uomo, perché ti manca la fiducia e perché non credi fermamente che dietro tutte le contraddizioni si cela l’unità e che dietro tutto il male c'è il bene.
[8ª regola] Ogni ambivalenza, si rivelerà come un'illusione di ambivalenza; si cerchi dietro obiettivi, apparentemente in lotta, il fine ultimo realmente operante (anche se inconscio) e si vedrà che anche l’apparenza ambivalente non è che un mezzo al servizio dell'immagine direttrice
[9ª regola] Non lagnarsi del dilemma, ma agire, anche a rischio di commettere degli errori o di provocare delle crisi. Meglio un passo falso che niente. Ma la vita è così organizzata che un passo che per uno è giusto non può essere falso per il prossimo.
[10ª regola] Vigiliamo affinché l'egotelismo in cui cadono i bambini s'irrigidisca il meno possibile. Si cerchi di mantenere il più possibile l'originaria fiducia, l'originario coraggio e l’originario finalismo (universale) del bambino. Si risparmino al bambino lodi e rimproveri e si eviti la formazione di fini particolari. E se si sbaglia, non si dia la colpa al bambino, ma al proprio egotelismo.
[11ª regola] Non ci si preoccupi di affermare la propria autorità e superiorità. Non ci si preoccupi nemmeno dell'isolamento del bambino né si vada mendicando la sua amicizia. Si rimanga obiettivi, si eserciti una critica amichevole e serena, mettendo in chiaro la situazione reale, sia interiore che esteriore, con le parole per i più grandi, con gli atti per i più piccini affinché appaia l'insensatezza ed il ridicolo della lotta per la supremazia. N on si risparmi nulla al bambino e gli si lasci trovare da sé la via del ritorno a un comportamento obiettivo. E se non si riesce nello scopo, non si cerchi il difetto nel bambino, ma nel proprio egotelismo.
[12ª regola] Non si permetta mai al bambino di sottrarsi alla propria responsabilità e alle conseguenze delle sue azioni. Non si prendano perciò in vece sua quelle decisioni che egli stesso può prendere; lo si lasci scegliere da sé i suoi giochi, fare le sue scoperte e le sue esperienze. Ci si guardi bene tanto dal viziarlo che dall'intimorirlo, altrimenti diventa troppo sottomesso. Se si ha un bambino sottomesso, si cerchi con incrollabile fermezza, pazienza e cordialità di portarlo ad agire di sua iniziativa. Lo si ponga di fronte a doveri imposti non dagli uomini ma dalle cose stesse. E se non riusciamo a dargli il senso della responsabilità, non diamone la colpa al bambino, ma al nostro egotelismo.
[13ª regola] I compiti scolastici siano tali da non scoraggiare il bambino. Non siano né troppo difficili, affinché non sia umiliato da un inevitabile insuccesso, né troppo facili, affinché non ne sia annoiato. Ma innanzitutto fare in modo che i compiti non appaiano un male necessario, bensì un dilettevole passo dello sviluppo personale. E se ciò non riesce, si cerchino le cause dell’insuccesso non nei programmi o nelle prescrizioni dell’autorità scolastica, ma nella propria mancanza di produttività e ci si sforzi di ritrovare la perduta fiducia nella vita.
[14ª regola] Chi ha a che fare con scolari indisciplinati si comporti in modo che essi da un lato sopportino le conseguenze della loro indisciplina (dovranno ad es. rifare i compiti trascurati, uscire dall’aula, ma non perché il maestro è cattivo, bensì perché devono essere tutelati gli interessi della collettività), ma dall’altro sentano non solo la piena simpatia, ma anche la piena comprensione dell'educatore. Egli deve spiegare loro perché sono ribelli, qual è la loro immagine direttrice e perché è falsa; e chiarire che egli non può né ammirare, né odiare, né temere uno scolaro che sbaglia, ma che il suo unico scopo è di dimostrargli come siano vani tutti i tentativi dell’uomo di sottrarsi alla propria responsabilità.
[15ª regola] Nel caso di un ragazzo apatico bisogna scoprire il fine, altissimo, al quale l'apatia serve come mezzo. Non appena il ragazzo si accorge che la sua pretesa apatia non è che una maschera, e che questa maschera è controproducente in quanto provoca proprio ciò che dovrebbe evitare, cioè l'insuccesso, e non appena il ragazzo s'accorge che si trova di fronte un uomo che non deve temere perché lo prende sul serio, allora la maschera d'indifferenza cade rapidamente e per sempre. E finché questo non riesce, l'educatore deve chiedersi in che modo il proprio egotelismo (l’egotelismo dell'educatore) impedisce al bambino di essere ad un tempo soggetto e oggetto.
[16ª regola] Quando l'educazione sessuale non può più svolgersi in modo semplice e innocuo, non si tratta più ormai di far conoscere i fenomeni sessuali, ma di eliminare gradualmente l’abuso che ne viene fatto. L’iniziazione in sé non presenta in tali casi alcuna difficoltà; ma ridare al bambino coraggio e fiducia unico mezzo per por fine alla sua lotta contro gli adulti è difficile qui come in ogni altro campo. E anche qui ogni insuccesso dev’essere attribuito alla mancanza di coraggio e fiducia nell'educatore.
[17ª regola] L’auto-soddisfazione sessuale non è un indice di perversione, ma semplicemente di scoraggiamento. Non si tratta di ricondurre l'istinto sessuale sulla giusta via, ma di ridare al ragazzo coraggio e fiducia; dopodiché la sua funzione sessuale rientrerà da sé nella normalità. Egli deve imparare a sopportare la depressione e la tensione e a non lasciare che gli insuccessi intacchino la sua dignità umana. Allora avrà altrettanto poco bisogno dell’auto-soddisfazione sessuale che dell'alcool o del fumo. E l’educatore che non è in grado di risolvere questo problema deve chiedersi quali ostacoli egotelici impediscono l’estrinsecarsi della sua propria vitalità creatrice.
[18ª regola] Le oscillazioni, l'aumento o la diminuzione del coraggio e della vitalità che si notano nel periodo della pubertà possono sempre venir utilizzati per l'inserimento del giovane nella società umana. Il nuovo senso sociale deve potersi sviluppare liberamente e apertamente in un rapporto fondato sull'amore, chiaramente riconosciuto e accettato con responsabilità, fino al fidanzamento ed infine al matrimonio. Chi ostacola questo sviluppo, non fa che favorire lo smarrimento nelle forme contrarie alla vita dell’erotismo solitario e del dongiovannismo avventuroso. Chi ha timore di guidare l’evoluzione dei giovani in modo che imparino ad amare pur rinunciando per il momento all’esperienza fisica dell’amore, costui cerchi in se stesso il difetto e l’errore.
[19ª regola] Chi soffre deve chiedersi non da quali circostanze esteriori, ma da quale falso atteggiamento interiore sia condizionata la sua sofferenza. Cerchi la relazione tra questa sofferenza ed il proprio egotelismo. Più chiaramente egli scoprirà questa relazione, più facile gli sarà eliminare il male. E se i suoi sforzi non riescono, deve riconoscere di non avere idee chiare su questa relazione. Chi si arena a questo punto, non ha sofferto abbastanza.
[20ª regola] Chi è egotelico lo è tanto nelle grandi attività che nelle piccole cose della vita quotidiana. Dall'influenza esercitata sugli altri in una semplice conversazione può riconoscere altrettanto bene che dal risultato finale di tutta la sua vita, se è un commediante che fa bolle di sapone oppure un lavoratore obiettivo. Né il proprio giudizio né il giudizio degli altri possono essere decisivi a questo riguardo. L’unico criterio valido di giudizio è l’aumento o la diminuzione dell'egotelismo di coloro con cui ha a che fare. Se si riesce a diffondere attorno a sé l’obiettività si può ritenere di aver ridotto il proprio egotelismo; se l’egotelismo degli altri aumenta, ne ha colpa la propria mancanza di obiettività. I frutti che produciamo sono lo specchio nel quale possiamo leggere il nostro destino: a meno che il troppo egotelismo non c'impedisca anche questo, rendendoci ciechi.
[21ª regola] Chi si sorprende nel tentativo di addossare agli altri la responsabilità del proprio destino, cerca ancor sempre di prendere come oggetto dell’analisi di se stesso dei fenomeni parziali anziché il proprio destino totale. Egli deve sforzarsi di passare dalla parte al tutto, dal « se » al « che », dalle condizioni del passato ai compiti del presente e dalle immagini direttrici alla realtà del suo vero volto. Se ciò non riesce, significa che la morsa del destino non lo ha ancora veramente afferrato. Egli deve aspettare, finché il crescente dolore lo spinge a rinunciare all’auto-inganno del proprio egotelismo.
[22ª regola] Chi cade in una situazione difficile e ne ritiene responsabile il proprio ambiente - uomini e cose - deve chiedersi perché mai non sia egli stesso in grado di cambiare questi uomini e queste cose oppure di assumere un atteggiamento tale da far sparire le difficoltà. E soprattutto quando la responsabilità viene attribuita a un inconveniente del passato ci si deve chiedere perché non si abbia sufficiente capacità di adattamento e forza creativa per trasformare questo inconveniente in un vantaggio. Chi in tal modo procede con costanza contro il proprio egotelismo, trova alla fine che la colpa non è meno sua che degli altri. Così la sua personale infelicità diventa una parte dell'universale sofferenza umana. Passato e presente sono disintossicati. Ma ogni individuo risponde degli errori di tutti; e le energie che non si esauriscono più in una vana accusa contro il destino, restano libere per cooperare al miglioramento del nostro comune destino.
[23ª regola] Un passo importante (tuttavia non indispensabile) dell’autoeducazione consiste nella scoperta della “scena d’origine”, che è un'espressione simbolica dell'immagine del mondo del bambino e il punto di partenza dell'immagine e delle linee direttrici. L’elaborazione interiore dell’egotelismo (sentimento d'inferiorità e bisogno di affermazione del proprio valore) trova in essa la sua materia vitale. La scoperta di queste “esperienze” di accentuato carattere affettivo facilita in alto grado il superamento dell’egotelismo. Però questa scoperta è possibile soltanto se si riesce a sconfiggere le resistenze egoteliche (dubbio, malumore e successo) arrivando alla confessione senza riserve delle connessioni più pericolose per l’egotelismo. Se ciò non riesce, si devono ancora sopportare le conseguenze dell'egotelismo, i tormenti della vita, finché l’io non si arrende.
[24ª regola] Chi ha scoperto le connessioni fra la sua sofferenza e il suo egotelismo ed è pronto ad ammettere la propria responsabilità per il futuro destino della sua vita, non può ancora attendersi senz’altro, come un meritato compenso, la fine della sofferenza, ma deve essere pronto a trarre le conseguenze effettive della sua scoperta e della sua confessione. Egli deve star saldo nella situazione che gli è finora sembrata la più insopportabile. Deve essere ad un tempo soggetto e oggetto, per quanto la vita glielo renda difficile. Solo chi si sottomette alla vita potrà dominarla.
[25ª regola] Non è necessaria soltanto la visione della genesi della sofferenza e la confessione dei propri errori e della propria responsabilità, ma anche l'accettazione serena di tutto quanto è accaduto. Lo si può deplorare, ma non si deve servirsene come di un’arma contro il destino. Un peccato che è stato riconosciuto e confessato in tutte le sue connessioni, non può più servire che come mezzo utile per gli scopi del futuro, come materiale istruttivo per migliorarsi. Immobilizzarsi nel pentimento è un errore come vantarsi dell’errore; l’una cosa e l’altra servono per sfuggire alla vita. L’accettazione non è invece né pentimento né vanto, ma semplice riconoscimento, elaborazione e valorizzazione di uno stato di fatto
[26ª regola] Chi accetta il proprio passato e la genesi dei suoi dolori si trova dinanzi al compito di accettare anche il futuro, come si svilupperà dal suo passato. Deve accettare il fatto di trovarsi, inesperto come un bambino, di fronte a nuovi sviluppi, il cui corso non può ancora prevedere. Deve affidarsi alla corrente della vita creatrice, senza tenere, come finora, il timone ansiosamente stretto nella mano e senza guardare preoccupato la carta di navigazione (falsa). Egli deve rendere i suoi piani per il futuro così elastici e adattabili, i suoi desideri e i suoi fini, anzi perfino le sue valutazioni e idee, così duttili, da poter essere in ogni istante arricchite, ammaestrate e trasformate da nuovi fatti e da nuove esperienze. Accettare il futuro significa accettare anche tutti i possibili mutamenti del proprio carattere. Chi considera un dovere “dimostrare carattere” e intende con ciò di dover rimanere così com'è, compie ancora un altro tentativo, più o meno abilmente mascherato, di mettersi al posto di Dio. Dovrà soffrire, finché la vita non correggerà il suo errore.
[27ª regola] Non basta accettare il passato ed il futuro, ma è necessario in primo luogo dir di sì ai compiti immediati del presente. Tra questi compiti se ne trova però sempre uno che esige proprio quello che prima appariva come la cosa più amara e intollerabile. Di fronte a questo compito si deve tener duro e non sfuggire né a destra né a sinistra. Chi accetta questo compito, progredisce; ma chi non lo vede o non si sente di affrontarlo, non ha ancora sofferto abbastanza. La vita lo deve colpire più duramente, affinché gli si aprano gli occhi ed il cuore.
[28ª regola] Non cercare di imporre a nessuno il tuo aiuto; aspetta di essere chiamato e sii pronto ad andartene anche senza aver ottenuto alcun risultato. Meno importanza dai tu stesso al fatto di essere di aiuto e più hai probabilità di riuscire ad aiutare. Quando la cura non riesce, la responsabilità dell'insuccesso non ricade sul tuo protetto né sulle circostanze esteriori, ma su di te.
[29ª regola] In ogni trattamento psicoterapeutico si trovano di fronte fin dal primo istante due uomini uguali e liberi. Meglio si esprime questo rapporto nel tono o nella forma della conversazione, e più rapidamente il paziente è liberato non solo da ogni finzione consapevole, ma anche da ogni mascheramento inconscio. Meno ha motivo di temere un giudizio morale del suo destino o del suo modo di comportarsi (o di quello dei suoi familiari) e più si comporta in modo naturale e apertamente rivela (coscientemente o inconsciamente) la verità. Il grado di sincerità del paziente dipende dunque dal grado di obiettività del terapeuta.
[30ª regola] Le comunicazioni fatte dal paziente siano sempre ordinate in modo da formare un'immagine del carattere sulla quale ambedue, paziente e terapeuta, siano d'accordo. Ci si serva di tutte le obiezioni del paziente per completarla o correggerla. Anche il suo comportamento attuale, il modo in cui fa le sue obiezioni o accetta senza nulla obiettare le opinioni del terapeuta, devono essere inserite, come fattore importante, nell'immagine del carattere. Se non si riesce a ordinare il materiale raccolto o a raccogliere il materiale necessario, vuol dire che la collaborazione fra paziente e terapeuta non è sufficientemente obiettiva ed il terapeuta deve chiedersi per quali manifestazioni del suo sentimento d'inferiorità o del suo bisogno di affermazione personale il suo lavoro non progredisce
[31ª regola] Si consideri con interesse ogni obiezione del paziente, si cerchi di rendere giustizia ad ogni obiettiva riserva, ma non si dimentichi mai che anche una discussione in sé giustificata può servire ad arrestare il proseguimento della cura o a spostare la conversazione su un teatro di guerra secondario. Si metta in chiaro questa utilizzazione tendenziosa delle obiezioni teoriche e le si ponga così al servizio dell'idea fondamentale della cura. Se tuttavia ci si lascia sviare e specialmente se il paziente riesce a fissare la discussione su un campo particolare in cui il terapeuta non è competente, questi deve chiedersi quale punto di vista non obiettivo da parte sua ha causato questa deviazione.
[32ª regola] Quanto più le resistenze del paziente si manifestano con cambiamenti d'umore, dei quali è tenuto responsabile il terapeuta, tanto più la cura tende ad inasprirsi in una controversia personale fra i due interessati. Tutti gli errori e le violenze che caratterizzano l’atteggiamento del paziente di fronte alla vita, si rivelano ora chiaramente nel suo atteggiamento di fronte al terapeuta. Il paziente li supererà tanto più rapidamente, quanto più obiettivamente il terapeuta li saprà illuminare. Invece ogni mancanza di obiettività da parte del terapeuta ritarda di molto la guarigione.
33ª regola] Poiché ogni uomo scoraggiato ha verso gli altri delle false esigenze, viene il momento in cui queste esigenze compromettono anche i suoi rapporti col terapeuta. Allora è necessario mettere in chiaro la loro natura, la loro origine, la loro fondatezza o infondatezza, finché il paziente si è adattato, sotto questo riguardo, alla realtà. Il successo sarà tanto più rapido e decisivo, quanto più l'atteggiamento del terapeuta sarà obiettivo nei momenti decisivi.
34^.…Via …più feconda, della verità, cioè il fatto che dobbiamo sopportare insuccessi, sconfitte e dolori, per trarne insegnamenti e maturarci..
Riassumendo si può dire: poiché il trattamento per suggestione può servirsi solo di elementi positivi, mentre la verità comprende elementi positivi e negativi insieme, non si può servirsi della verità come mezzo di suggestione. La guarigione però non si può ottenere che per via della verità; dunque la suggestione, che necessariamente implica sempre una menzogna, non può portare la guarigione. (pag.85) Per il problema della suggestione vale la seguente regola:
[34ª regola] Si cerchi di evitare il più possibile ogni forma di suggestione, e non si lasci sorgere nemmeno l’idea che la guarigione sia effetto di suggestione. Si cerchi di dimostrare al paziente che in ogni sua idea esprimente qualcosa del genere si nasconde il desiderio di sottrarsi alla propria responsabilità. Ma se il paziente ha ragione, se effettivamente si sono avute delle suggestioni (il che è rivelato dal riapparire di vecchi sintomi o dal sorgere di sintomi nuovi, prima sconosciuti) ci si chieda quando e perché il proprio bisogno di affermazione abbia imposto al terapeuta la parte del suggestionatore.
[35ª regola] Se lo psicoterapeuta non riesce a far comprendere al paziente il vero rapporto esistente fra cura e guarigione, vuol dire che egli (psicoterapeuta) non ha ancora raggiunto una completa obiettività. Finché il paziente ritiene che la psicoterapia agisca come una causa il cui effetto necessario debba essere la guarigione, il compito psicoterapeutico non può considerarsi assolto. Solo quando si rende conto che la psicoterapia non è che un mezzo di cui i fini vitali che agiscono nell'uomo possono servirsi quando e come vogliono, quando cioè capisce che guarigione significa grazia, si può sperare che si avvii alla guarigione.
[36ª regola] Non dimenticare mai, né nell'autoeducazione né nella educazione degli altri, che noi con nessun mezzo possiamo conquistare a forza il progresso, la guarigione o la maturazione psichica. Noi possiamo soltanto impedire la maturazione con un comportamento errato o, con un giusto comportamento, cercare di rimuovere gli ostacoli che ancora ostruiscono la strada. Ma se crediamo di aver rimosso tutti gli ostacoli e non otteniamo ugualmente la guarigione, vuol dire che siamo in errore. Vi sono ancora altri ostacoli, e noi siamo ancora nella morsa del destino: o continuiamo a lavorare per rimuoverli, o non abbiamo ancora abbastanza sofferto.
...Finis Coronat Opus...